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Comunicazione in store, un confronto tra case history da gdo e farmacie

Consumatore

Il category management, come noto, rappresenta un processo di gestione delle categorie merceologiche incardinato sui bisogni delle persone. Secondo la sua dottrina, lo spazio deve essere organizzato dalla prospettiva del cliente, che entra in farmacia per cercare cura, salute, benessere, professionalità e servizi ancor prima di acquistare prodotti. Ecco dunque che gli scaffali, visti come un supporto attivo alla vendita, devono essere in grado di parlare, comunicare, raccontare una storia fatta di scelte.

Dall’enunciazione appena espressa discendono le due anime del category: una analitica, che deduce da scontrini e venduto la quantità di spazio da assegnare a categorie e segmenti e la sua qualità in orizzontale e in verticale; l’altra creativa, che invece si occupa di “vestire” lo spazio e comunicare attraverso la segnaletica di primo, secondo e terzo livello (ripartizione dei mondi prodotto, delle categorie e dei segmenti, informazioni sul prezzo, eventuali attività promozionali).

Concentriamoci su quest’ultima e sulla disciplina cui rimanda, il visual merchandising (che mira a valorizzare l’assortimento per renderlo leggibile al cliente): la comunicazione in store può migliorare l’esperienza di visita e di acquisto del consumatore anche in farmacia così come già fa in molti altri canali del retail? È auspicabile che anche nella farmacia si cerchi di semplificare la relazione cliente-prodotto-spazio?

Noi crediamo di sì. E crediamo anche che dalla contaminazione con le esperienze di altri canali si possano trarre spunti e ispirazioni da applicare in farmacia con i dovuti adattamenti: cambiano ovviamente i bisogni e il cliente avverte la necessità di un’assistenza alla vendita più spesso che nei canali del libero servizio, però anche in farmacia la comunicazione in store riveste un peso essenziale perché contribuisce a costruire una relazione duratura con il cliente.

Nella grande distribuzione organizzata, in particolare, le insegne si sforzano da tempo di cogliere le opportunità offerte dalla segnaletica e dalla comunicazione in store per accrescere la notorietà del proprio brand o arricchire l’esperienza di acquisto. Una “case history” degna di menzione è quella di Tigros, catena italiana che opera nel nord Italia a partire dal 1979 con una settantina di filiali; il payoff dell’insegna, “Il fresco più buono”, mette in primo piano l’attenzione alla freschezza e alla qualità dei prodotti. E i suoi valori sono convenienza, qualità, salute e benessere.

 

Mangiare sano è questione di quantità e qualità…
La comunicazione in store rafforza i valori dell’insegna e invita il consumatore a mangiare sano. La segnaletica dispensa non soltanto claim assertivi, ma fa anche cultura sulla bio-diversità e sulla prevenzione.

 

Il caso Tigros, di cui abbiamo parlato anche nel webinar sulle nuove strategie di category organiato da Retail Hub e Pharmacy Scanner lo scorso 26 gennaio, dimostra che una comunicazione in store ponderata rafforza i valori dell’insegna e contribuisce a definirne il posizionamento agli occhi del consumatore; il punto vendita rivendica così il ruolo di pre-selezionatore degli assortimenti e di educatore, attraverso l’invito a uno stile di vita bilanciato e un’alimentazione equilibrata.

Il tema della salute trova nella farmacia collocazione ancora più legittima, tenuto anche conto del fatto che negli anni questo canale ha ampliato la propria gamma di prodotti e di servizi per rispondere in modo puntuale ai bisogni della clientela. Molte farmacie, e soprattutto le catene, hanno iniziato a cogliere le opportunità offerte dalla
segnaletica e dalla comunicazione in store, al fine di incrementare la notorietà dell’insegna od orientare i clienti nella scelta. Ma c’è ancora da lavorare, soprattutto sulla coerenza.

 

Unica, come te…
Nelle farmacieUnica la segnaletica di primo livello (per intenderci quella che reca logo e payoff) riassume l’identità dell’insegna e promette la distintività della relazione.

 

Nelle farmacie di Unica, per esempio, brand dell’insegna e pay off dominano la segnaletica di primo livello e promettono una relazione distintiva con il cliente. Ma quando si passa al secondo livello (per intenderci l’area dedicata alla categoria cosmesi) la coerenza sbiadisce perché la comunicazione non è più personalizzata ma generalista, in quanto viaggia su brand di ampia notorietà (Vichy, BioNike, Lierac, Avène, Ducray, A-Derma).

 

Il Benessere per tutta la famiglia…
In questo caso la segnaletica indica il criterio di aggregazione merceologica per una serie di prodotti destinati a target diversi. E la comunicazione di secondo livello trasmette un imperativo categorico: “Chiedi a noi”.

 

Altre volte invece sembra mancare un approccio in cui la prospettiva è quella del cliente. La calata degli occhiali premontati, per esempio: e se accanto all’espositore si fosse aggiunto uno specchio, oppure una seduta o un ripiano per appoggiare la borsa? Il cliente sa come scegliere le lenti più adatte? L’offerta è completata da una selezione di astucci, prodotti per la pulizia delle lenti e, perché no, colliri decongestionanti?

 

Cef: La tua fiducia, la nostra forza
La segnaletica di reparto (primo livello) è in parte sostituita da un claim che testimonia valori e missione della rete: riscuotere la fiducia dei clienti, così da consolidare la brand awareness.

 

Nel caso del nuovo concept di Cef – La farmacia italiana, la segnaletica di primo livello e l’uso intenso del logo della rete rafforzano la conoscenza del marchio sul territorio, ma non aiutano a decifrare lo spazio: “Medicazione, igiene orale e veterinaria” sono categorie ancora generaliste se lette in ottica category dal punto di vista del cliente. Quali opportunità si potrebbero cogliere dal Visual Merchandising? La comunicazione in store potrebbe utilizzare un diverso tono di voce? Come renderla coerente con l’immagine della farmacia o della rete?

Al di là degli esempi appena riportati, capita spesso di osservare una comunicazione di secondo livello incompleta o superficiale, che non è di aiuto al consumatore. Gli scaffali non devono per forza essere stipati di prodotti, in una sorta di bulimia assortimentale, perché l’occhio ha bisogno di spazi (magari tra una linea e l’altra) per individuare le alternative di consumo. Gli scaffali, in altri termini, non dovrebbero essere considerati meri espositori di merci ma un supporto attivo alla vendita, attraverso il quale dialogare con il consumatore e presentargli i motivi per cui dovrebbe fermarsi in quel punto. Noi crediamo che con un po’ più di attenzione al visual merchandising e alla comunicazione in store i margini di miglioramento sarebbero enormi, al di là dell’ubicazione o della superficie espositiva della farmacia.

Cristina Pisani ed Elisa Fabbi

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