Sembra proprio difficile, di questi tempi, cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno, voler essere sempre e comunque positivi, soprattutto a fronte di uno stillicidio di dati incalzanti su contagiati e su decessi, con tutti noi ora bardati con mascherine e plexiglas e obbligati a un innaturale “distanziamento sociale”. Ma che brutta definizione ci ha regalato il coronavirus, veramente sgradevole perché estranea alle consuetudini di noi italiani, abituati a gesticolare, abbracciare, alle manifestazioni amichevoli e affettuose. Distaccamento sociale anche con i parenti, con gli amici e con i colleghi che ci conoscono da una vita e con i quali si è sempre condiviso molto, ma che ora vanno tenuti a debita distanza, per paura di un virus invisibile e sconosciuto, che dobbiamo affrontare spesso disarmati e impotenti.
Ma come si fa a essere positivi e a voler essere ottimisti? Che rischio si corre, di questi tempi, a sostenere che da ogni difficoltà nasce un’opportunità? Minimo uno sberleffo (e la distanza di almeno un metro ci salva da peggio), perché più che inguaribili ottimisti qui si passa per idioti provocatori. Certo, è più facile oggi essere catastrofisti, ritenere che all’emergenza sanitaria seguirà una ancor più grave emergenza economica, prevedere attività distrutte, imprenditori falliti, perdite di posti di lavoro, povertà planetaria. Come in una guerra, appunto, che tutto devasta, e così niente sarà più come prima.
Ecco, forse proprio in questo c’è del positivo. In fin dei conti, il periodo più proattivo dell’Italia si è verificato proprio nel dopoguerra, in quegli anni Sessata che hanno visto rifiorire la società e l’economia del Paese. E che il dopo-coronavirus sarà altra cosa, ci dobbiamo proprio credere. Perché questa emergenza ha già posto le basi per un’evoluzione. Pensiamo, per esempio, alla tanto auspicata trasformazione digitale, che sempre più interesserà sia il retail, sia il mondo produttivo, e che proprio in questi mese ha dimostrato la sua efficacia anche nel nostro settore. L’utilizzo dell’online ha eliminato le ricette rosse e le autorizzazioni cartacee per certi presidi e renderà superflui i promemoria («far viaggiare le carte, non le persone»), così come ha riportato in farmacia, in molte zone, i farmaci della distribuzione per conto.
Certo, ci sono interessi politici che limitano l’accesso ai farmaci in distribuzione diretta, che obbligano i malati (che dovrebbero stare in casa), a pericolosi spostamenti per recuperare medicinali salvavita. Mai come ora, però, si è capito che la casa dei farmaci è la farmacia e su questo bisogna puntare. E se i politici metteranno i bastoni tra le ruote, sappiamo che i cittadini non vorranno più rinunciare a certe comodità.
L’evoluzione digitale ha favorito la consegna dei farmaci direttamente a casa del malato, ha sviluppato le vendite online, ha diffuso le app dedicate ai servizi sanitari e a molti altri benefit, come evitare le code e gli assembramenti, o permettere il triage con il medico, e così via. Il coronavirus ha imposto comportamenti che sono ormai entrati nelle abitudini del cittadino, garantendo vantaggi ai quali non vorrà più rinunciare.
La farmacia prossima ventura ne potrà approfittare. Pensiamo, per esempio, alle opportunità offerte dal processo di dematerializzazione della ricetta, dal ritorno di tutti i farmaci in farmacia, che va preteso, dallo sviluppo della telemedicina e dei teleservizi, dalle possibilità offerte dal fascicolo sanitario elettronico per la presa in carico del paziente e per l’aderenza terapeutica, dai vantaggi che vengono dall’aggregazione e dal farsi rete. Sarà utile allora guardare quanto già fanno abitualmente i colleghi stranieri, con le piattaforme per le televisite, le app che inviano la richiesta di farmaci direttamente in farmacia, o ne prenotano il ritiro, o la consegna domiciliare, o autorizzano l’invio della ricetta alla propria farmacia e molto altro ancora che la moderna tecnologia saprà inventare.
Chissà, forse sarà proprio questo il solo, ma non certo piccolo, regalo che il covid-19 ci lascerà.