Negozio “anti-Amazon” fa pagare chi prova e non compra. Ed è subito dibattito

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Entri in negozio per provare o chiedere informazioni su qualche prodotto, ma poi te ne esci senza aver acquistato? Allora paghi un “ticket” di una decina di euro, così se sei uno di quelli che scomodano il negoziante e poi vanno a comprare su Amazon la prossima volta ci ripensi. E’ un’idea che tra i retailer sembra trovare sempre più apprezzamenti, farmacisti compresi visto che di tanto in tanto qualcuno ne discute sui social media di categoria. E ora fa anche notizia: qualche giorno fa, infatti, diversi quotidiani nazionali hanno riportato il caso di un negozio di scarpe di Mirandola, nella bassa modenese, dove chi prova ma non acquista deve versare un fee di 10 euro. Ma episodi analoghi erano già saltati fuori di recente a Prato, Sarzana (in provincia di La Spezia) e Trento.

A riferire della storia modenese è una comunicazione di Federconsumatori, intervenuta su segnalazione di una ragazza che si era recata nel negozio per provare alcune scarpe sportive e poi all’uscita le è stato chiesto l’obolo. In modo un po’ scomposto, a prestare fede al racconto dell’interessata: tra gli scaffali o in vetrina non c’erano cartelli che avvisassero e quando la cliente ha chiesto spiegazioni il negoziante ha risposto stizzito che nel suo negozio «le regole sono quelle» e decide lui «chi deve pagare e chi no».

Legittimità della “tassa” anti-Amazon a parte, per Federconsumatori i retailer che volessero seguire l’esempio del negozio modenese dovrebbero affiggere un avviso «con grande evidenza all’ingresso del locale, per consentire ai clienti di scegliere se entrare o meno. Inoltre, dovrebbe essere specificato che la regola sarà applicata a chiunque non compra». E se il cartello non c’è, continua l’associazione, «bisogna sempre rifiutarsi di pagare, valutando una segnalazione dei fatti alla Polizia Municipale».

Ma c’è anche un altro aspetto della vicenda che merita di essere approfondito: la soluzione adottata dal negozio modenese è davvero ciò di cui hanno bisogno i retailer tradizionali per difendersi dall’e-commerce. Se lo è chiesto su Linkedin Massimo Dona, presidente dell’Unione nazionale consumatori, e tra chi ha risposto c’è anche Mario Gasbarrino, ex amministratore delegato di Unes (supermercati): «Pensate davvero che questo sia un metodo per sostenere le vendite di un negozio fisico? A me sembra il modo giusto per affossarlo. L’e-commerce è il futuro e con il futuro è inutile combattere, perché vince sempre». Non tutti però condividono. E tra chi si schiera dalla parte del negoziante di Mirandola ci sono anche un paio di manager della filiera farmaceutica, che difendono la causa del retail tradizionale.

E tra gli esperti di marketing? Prevalgono i commenti negativi: per Giorgio Chiaberge, consulente del canale farmacia ed editorialista di Pharmacy Scanner, la prima domanda da porsi riguarda il prezzo: «Vale 10 euro una prova scarpe? Io ne dubito, e già questo rappresenta un elemento di riflessione. Capisco che il commerciante sia esasperato dal cosiddetto fenomeno dello showrooming (mi informo nel negozio e compro online, ndr) e che molti titolari provino vicinanza perché anche loro sono esasperati dal fenomeno, che interessa soprattutto segmenti a metà tra salute e self service come dermocosmesi  fitoterapia. Ma non è questa la strada: l’online si combatte con l’empatia e il consiglio, perché se prima di comprare su internet vengono in farmacia è proprio per avere assistenza. Più che pensare di farla pagare, quindi, i farmacisti considerino la propria consulenza come un’opportunità per far cambiare idea al cliente e convincerlo a comprare da loro piuttosto che su Amazon». Per Gianluca Diegoli, consulente di marketing e blogger, le colpe dell’e-commerce sulla crisi dei negozi «sono largamente sopravvalutate. La quota di mercato generale non supera il 7%, e anche se nell’abbigliamento può risultare doppia o tripla, è ben lontano dall’essere maggioritaria». La verità, piuttosto, è che la soluzione escogitata dal negoziante modenese «abbatte l’unica possibilità che ha un negozio di sopravvivere, cioè il numero di persone che ci entrano».

Nicola Posa, senior partner di Shackleton Consulting, invita invece i farmacisti ad attaccare piuttosto che difendersi. «In molti canali del commercio c’è forte livore per lo showrooming ed è anche comprensibile perché c’è chi è realmente in difficoltà» spiega «dunque scelte come quelle del negoziante di Mirandola le considero un “fallo di frustrazione”. La risposta da dare, piuttosto, è quella di essere ancora più accoglienti e dare ancora più informazioni, così come curare il follow up, cioè la fase post-vendita: il cliente che poi va a comprare su internet è una seccatura ma rappresenta meno del 10% delle persone che frequentano la farmacia. Il mio suggerimento, in sostanza, è quello di non svalutare il consiglio ma piuttosto valorizzarlo».

Più “tranchant” Damiano Marinelli, anch’egli consulente della farmacia: «Il negoziante che fa pagare la prova scarpe 10 euro per contrastare la concorrenza dell’online sta soltanto facendo male il suo lavoro» commenta «l’unico modo per contrastare internet è quello di dare qualcosa di più, non qualcosa di meno. Occorre allora distinguere tra che è “commerciante” e chi “commerciale”: il primo è attento soltanto al prodotto, allo scambio, al margine. Il secondo invece è quello che dà maggiore importanza al cliente, cioè a colui che gli paga lo stipendio. Il commerciale di oggi è simile al farmacista del passato, il farmacista preparatore che produceva e vendeva. Per questa categoria, l’online rappresenta un’opportunità, non una minaccia».

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