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Integratori e influencer, un’indagine di Altroconsumo svela le “relazioni nascoste”

Consumatore

Altro che Chiara Ferragni o Clio Make Up: non sono i “big” dei social, quelli da milioni di like, ma piuttosto i cosiddetti “nano-influencer”, con un seguito sotto i 10mila follower, i testimonial più ricercati dalle aziende che producono integratori. Lo rivela un rapporto condotto da Altroconsumo, che nei giorni scorsi ha inviato all’Antitrust un paio di segnalazioni per pubblicità occulta di prodotti salutistici. Quanto riporta l’associazione (nota soprattutto per le sue battaglie sulla fascia C) riguardo alla propria indagine merita di essere letto anche dai farmacisti titolari, se non altro per capire quali sono i fenomeni emergenti della pubblicità via social e perché i produttori mostrano crescente interesse per questo genere di comunicazione.

Al contrario delle celebrità, spiega Altroconsumo, i piccoli influencer dispongono di «una comunità più fedele e coesa» perché riescono a colloquiare direttamente con i singoli follower, che li percepiscono come persone reali e vicine anziché icone irraggiungibili. «Insomma, meglio puntare su profili in linea con i valori del brand piuttosto che su personaggi con un bacino d’utenza amplissimo, ai quali però bisogna pagare compensi salatissimi senza un ritorno economico garantito».

La pubblicità, dal canto suo, viaggia nascosta nei messaggi che i nano-influencer mettono in rete attraverso post, storie, video e reels, ossia clip di 15 secondi realizzati con gli strumenti creativi di Instagram. Altroconsumo propone qualche esempio: in un post, un influencer presenta un integratore definendolo «un dimagrante ultra potente, termogenico e brucia grassi», che «stimola il metabolismo ed elimina il senso di fame con effetti diuretici» ed è «100% naturale». Si tratta, scrive l’associazione, di informazioni riportate anche nel sito web del produttore, ma «menzognere».

Con i micro-influencer, prosegue l’associazione, i produttori possono anche misurare più facilmente il ritorno dell’investimento in comunicazione. Basta che dal suo profilo Instagram (o Tik Tok, Youtube, Facebook) il testimonial offra codici sconto da presentare come un “favore” personale a beneficio dei suoi follower (quando invece si tratta di una campagna attentamente pianificata). «I vantaggi sono diversi» spiega Altroconsumo «l’influencer guadagna una percentuale sugli acquisti abbinati ai suoi codici, l’azienda riesce a tracciare le vendite e a valutare l’abilità del testimonial. E lo sconto, che già ingolosisce di per sé, appare ancora più prezioso dato che questi integratori sono venduti a peso d’oro».

E’ evidente che il problema non è l’influencer, ma l’opacità della comunicazione. Nel 2017, ricorda Altroconsumo, l’Antitrust aveva ricordato con un intervento ad aziende e personaggi social che il mondo del web non è al di fuori delle regole: la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale e allo scopo l’Autorità suggeriva di inserire nei post i cosiddetti «hashtag della trasparenza», come #pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento, cui far seguire il nome dell’azienda.

Finora però le indicazioni dell’Antitrust sono state rispettate soltanto da una minoranza, almeno a giudicare dall’analisi condotta dalla piattaforma Buzzoole: il comparto più ligio è quello della moda, che utilizza nel 29,3% dei post hashtag trasparenti (#ad, #adv, #sponsorizzato, #sponsored, #inserzioneapagamento, #prodottofornitoda, #pubblicità, #advertising). Segue il beauty (20,8%) e a distanza gli altri, la maggior parte dei quali però sta sotto il 10% (Buzzoole non ha monitorato il comparto salute).

Anche per questo, Antitrust e Unione europea hanno puntato da tempo la lente sul fenomeno. La stessa indagine di Altroconsumo, che ha portato a due segnalazioni di integratori promossi su Instagram con pubblicità scorrette (citeremo i brand nel caso in cui il Garante le raccoglierà), è finanziata grazie a un progetto della Commissione Ue nell’ambito del programma per la tutela dei consumatori 2014-2020. E anche le farmacie ne dovrebbero tenere conto.

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