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Incompatibilità della legge 124/2017 dimenticate in un cassetto della farmacia

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La farmacia italiana è minacciata dall’ingresso di gruppi stranieri e dalla creazione di catene che rischiano di minare nelle fondamenta il principio della pianta organica e tutti gli argini legali e culturali storicamente contrapposti alla concorrenza commerciale tra farmacie. Sono tutti pericoli, presenti o futuri, ai quali i farmacisti cercano di opporre una resistenza che appare spesso solo simbolica e rivolta a frenare gli sviluppi che tecnologia e tempi moderni ci offrono (e-commerce, telemedicina, progetti di supporto all’aderenza terapeutica, collaborazioni con assicurazioni o altri player del mondo della Salute). La legge che aveva aperto le porte al capitale, la 124/2017, aveva piantato alcuni paletti con l’obiettivo di tutelare la farmacia professionale. L’attenzione si è concentrata in gran parte sul tetto del 20% (ogni catena può controllare non più del 20% delle farmacie in attività nella stessa regione), ma la normativa fissa altri limiti sui quali si è poco ragionato.

In particolare all’articolo 157, comma 2, la legge afferma: «La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica». Il divieto di integrazioni verticali (ossia l’esercizio congiunto dell’attività di produttore e distributore del farmaco) e l’incompatibilità tra la titolarità della farmacia e l’esercizio di altre professioni sanitarie è un importante paletto che dovrebbe essere scrupolosamente applicato.

Invece, sorge qualche dubbio: tutti i gruppi e network commercializzano prodotti a marchio che tipicamente presidiano i segmenti del cosmetico e degli integratori. E fin qui non ci sono problemi. Ci sono però insegne che, sotto la loro marca privata o brand di proprietà, propongono farmaci generici, otc, medical devices. In queste circostanze, invece, la ratio della legge è rispettata? C’è una netta separazione tra chi produce e la catena che distribuisce? O forse servono ulteriori interventi legislativi che mettano in chiaro i confini applicativi? Non varrebbe la pena che la categoria chiamasse in causa l’Antitrust, anche solo per un approfondimento?

Siamo convinti che i farmacisti dovrebbero agire fin d’adesso a loro tutela. Se non lo fanno, rischiano di rimanere schiacciati dalla concorrenza di catene organizzate che con i loro farmaci a marchio integrano la marginalità non soltanto di distribuzione e vendita, ma anche della produzione. Questi circuiti riuscirebbero così ad accrescere la propria quota di mercato a scapito dei farmacisti indipendenti per imporre vere e proprie corporazioni di farmacie-drugstore. Ossia ciò che le incompatibilità della legge sulla concorrenza volevano appunto evitare.

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