Da quando la legge 124/2017 ha aperto la titolarità al capitale, nel comparto della farmacia ha fatto il suo ingresso un’eterogenea moltitudine di attori: dalle società della distribuzione intermedia, di farmacisti e non, ai fondi di private equity; dalle insegne internazionali alle aggregazioni di titolari (talvolta imperniate su basi familiari) che formano piccole catene di pertinenza quasi sempre locale o regionale.
Questi attori sono scesi in campo in momenti diversi e stanno operando secondo schemi differenti. Ci sono per esempio i “first movers”, quelli arrivati per primi, che hanno beneficiato di un doppio vantaggio: hanno cominciato ad acquistare quando i prezzi non si erano ancora gonfiati e hanno potuto consolidare una massa critica più sostenibile dal punto di vista economico-finanziario, in tempi per di più rapidi perché i player non erano tanti quanto lo sono adesso.
Invece chi è partito dopo – e tra questi ci sono diversi fondi di equity – si è trovato ad acquistare a prezzi nettamente più alti, tanto che qualcuno ha parlato di “bolla”, e oggi fa sempre più fatica a comprare perché spesso attorno a una farmacia in vendita si scatenano vere e proprie aste al rialzo. Il fatto che i prezzi si siano raffreddati negli ultimi mesi, peraltro non in maniera uniforme sul territorio nazionale, non tragga in inganno: all’origine c’è soltanto una stretta creditizia, la domanda di farmacie da acquistare da parte dei gruppi del capitale non si è certo acquietata.
Come detto, tra gli attori figurano oggi diversi fondi di investimento, nazionali ed esteri: chi mostra una strategia di breve termine, chi invece rivela un progetto industriale di lungo termine, con un posizionamento distintivo e scelte già chiare riguardo a piattaforme logistiche, approvvigionamenti eccetera. Le strategie organizzative invece appaiono spesso simili: di solito si lascia al precedente titolare la possibilità di rimanere come direttore, si mantiene il commercialista della precedente gestione eccetera.
E i farmacisti titolari che vendono? In molti casi quella della cessione è una scelta diventata ineludibile a causa dell’indebitamento, accumulato talvolta perché non si è saputo cogliere per tempo i segnali di una liquidità sempre più in crisi. Non è questa la sede per rispolverare vecchi vizi gestionali, ciò che preme qui sottolineare è che quando si vende per necessità si è sempre in una condizione di debolezza rispetto a chi è intenzionato a comprare. Non è una partita alla pari, è come se una delle due squadre giocasse con uno o due calciatori in più.
Le sorti dell’incontro verrebbero però riequilibrate se in aiuto del titolare, ma anche del sistema, intervenisse un soggetto finanziario che lo affiancasse transitoriamente nella gestione della farmacia per 5/7 anni, immettendo la liquidità con cui ricostituire gli equilibri patrimoniali e finanziari. Un fondo insomma, che potremmo definire il Fondo che non c’è (come l’isola di Peter Pan) proprio perché a oggi uno strumento di questo genere manca del tutto.
È evidente che questo Fondo che non c’è non potrà rinunciare a un profitto, in assenza del quale non riuscirebbe a remunerare il capitale impiegato e quindi a raccoglierlo sul mercato. Ma ciò non impedisce che questo Fondo immetta denaro in base a una “corporate social responsability” orientata alla mutualità e alla solidarietà, due valori certamente più prossimi al senso di appartenenza di una professione che al mercato. Sia chiaro, la mission del Fondo che non c’è non sarebbe quella di dare risorse a fondo perduto: quando una farmacia entra in crisi di liquidità, nella maggior parte dei casi c’è all’origine una difficoltà gestionale del titolare, magari legata alla difficoltà di aggiornare modelli e attività; è molto raro che la causa sia un reale deterioramento delle vendite.
Il Fondo che non c’è, quindi, potrebbe “importare” all’interno della farmacia le competenze necessarie per stare al passo con i tempi e aggiornare il business mix. In questa funzione, rappresenterebbe un patrimonio non soltanto per le singole farmacie, ma per l’intera filiera che ne uscirebbe rafforzata creando una spirale virtuosa di efficienza e fiducia. I capitali cui il Fondo attingerebbe? Penso al capitale diffuso, tra quelli che già oggi sono i principali stakeholders del sistema farmacia che ne condividerebbero la mission, così come penso ad aziende la cui preoccupazione diretta e indiretta sia comunque quella di preservare la componente professionale, sanitaria e sociale della farmacia. È soltanto una provocazione?