Intelligenza artificiale, una ricerca fa chiarezza: pochissimi lavori a rischio, tantissimi cambieranno
Per dare nuovi contenuti e orizzonti alla professione di farmacista conviene ragionare non sul presente ma sul futuro prossimo, quando l’intelligenza artificiale avrà scompaginato orizzonti e prospettive e niente sarà più come oggi. E magari sarà diventato inutile rivendicare nuove competenze come la prescrizione, perché tanto a prescrivere provvederanno gli algoritmi. È l’ammonimento che si ricava dallo studio pubblicato la settimana scorsa sulla rivista Science e dedicato a un’analisi degli impatti che avranno sul mondo del lavoro i Gpt (Generative pre-trained transformer, altra sigla da mandare a mente assieme ad Ai).
Scritto a quattro mani da Tyna Eloundou e Pamela Mishkin, di OpenAI (la società che ha realizzato ChatGPT), Sam Manning, ricercatore del Centre for the Governance of AI di Oxford, e Daniel Rock, docente alla Wharton School dell’università della Pennsylvania, l’indagine si distingue dalle tante già realizzate finora perché ha il merito di analizzare sistematicamente le trasformazioni che l’intelligenza artificiale innescherà nel mondo del lavoro non per singole professioni nel loro insieme, ma competenze e mansioni. A tal fine, gli autori hanno individuato un campione di circa un migliaio di profili lavorativi, e per ciascuno hanno individuato le specifiche attività dettagliate (poco più di duemila) e i relativi compiti, in tutto 19.265. Quindi, anche con l’aiuto di ChatGPT, è stato stimato per ciascuno di essi il livello di “esposizione” all”intelligenza artificiale, ossia la probabilità che tra breve la mansione sia affidata ad algoritmi con auto-apprendimento.
I risultati sono un po’ come il proverbiale bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda di come lo si vede. Per cominciare, tra le professioni analizzate sono pochissime – soltanto l’1,86% – quelle esposte a un rischio di automazione pari al 100%, cioè potrebbero essere sostituite a breve da un algoritmo in tutti i loro compiti. Segue un altro 18,5% di profili lavorativi che mostra un rischio pari al 50% (cioè metà delle loro competenze sono “algoritmizzabili”) mentre per l’80% delle professioni il rischio si ferma al 10%.
Questa prima evidenza basta già a spiegare l’originalità della ricerca: finora si è sempre ragionato di professioni “cancellate” o “salvate” dall’Ai, l’indagine invece dimostra che a parte pochissime figure niente si distruggerà ma molto si trasformerà: l’intelligenza artificiale, in altri termini, non sostituirà l’uomo ma lo affiancherà e farà una parte del suo attuale lavoro, proprio come la catena di montaggio o il personal computer hanno fatto prima di lei.
Automazione, rischia di sparire davvero solo l’1,86% delle professioni
Altro merito dell’indagine, quello di confutare uno dei principali luoghi comuni che circolano in ogni discorso sull’intelligenza artificiale: le occupazioni più esposte all’Ai non sono quelle di minor valore, ma al contrario le attività di livello intellettuale medio-alto. Lo studio è esplicito: non correranno alcun rischio (tra gli altri) macellai, gommisti, cuochi, baristi, lavapiatti, muratori e falegnami, al contrario tra le professioni più “esposte” all’Ai ci sono interpreti e traduttori (75% delle attività automatizzabili), poeti e scrittori (68%), etologi (67%) matematici e analisti finanziari (100%), commercialisti e revisori dei conti, giornalisti e ricercatori clinici (100%).
In particolare, è la stima, l’esposizione all’Ai è maggiore tra le professioni che richiedono lauree brevi, Master e diplomi professionali. Tra le occupazioni che richiedono una laurea, invece, il rischio di automazione si riduce sensibilmente (pur senza sparire). In particolare, «le professioni con la minore esposizione sono quelle che richiedono la massima formazione. Al contrario, lavori che non richiedono formazione sul posto di lavoro o implicano soltanto tirocini residenziali sono i più esposti». In altri termini, «i risultati indicano una forte correlazione negativa tra Ai e attività che richiedono pensiero scientifico e capacità critica, nel senso che per questi profili è minore la probabilità di un impatto degli attuali algoritmi». Al contrario, «le capacità di programmazione e scrittura mostrano una forte associazione positiva, ossia un rischio di esposizione all’Ai più elevato».
Automazione, alcune delle professioni che rischiano di più
Quali indicazioni ne discendono per i farmacisti? La prima l’abbiamo già anticipata: se si vuole ragionare sulle nuove competenze che la professione potrebbe rivendicare per il futuro più prossimo, il riferimento devono essere giustamente i bisogni delle comunità ma non va trascurato il progresso dell’Ai. Perché altrimenti, si rischiano di fare battaglie per ottenere compiti che a breve saranno le macchine a svolgere. Un’indicazione esplicita, in tal senso, la ricerca la fornisce: nel profilo riguardante gli infermieri dei reparti di salute mentale, gli autori scrivono a chiare lettere che in futuro la prescrizione sarà probabilmente affidata ad algoritmi digitali, mentre ai professionisti rimarrà la verifica finale delle ricette.
Sarebbe un errore ritenere che si tratti di scenari futuribili e lontani: negli Usa, per esempio, già oggi si sta velocemente diffondendo tra i medici l’uso di algoritmi che traggono appunti scritti dalle visite con i pazienti e con queste note aggiornano le cartelle cliniche elettroniche dei diretti interessati (ricordate quello che diceva la ricerca, la scrittura sarà una delle prime competenze a essere monopolizzata dall’Ai…). In questo modo, il medico si concentra nel colloquio e tutto il lavoro di segreteria viene delegato all’intelligenza artificiale. In un recente servizio del canale di news Cnbc Christopher Sharp, responsabile delle informazioni mediche alla Stanford Health Care (gruppo americano della sanità ospedaliera), affermava che gli algoritmi per la compilazione clinica sono «straordinariamente semplici» da usare, affidabili, precisi e potenti, che fanno risparmiare tempo e anzi hanno cambiato il modo con cui i medici gestiscono il loro tempo. E in futuro, questi programmi diventeranno così sofisticati da cogliere i toni di voce dei pazienti e segnalare al curante umori del momento e stati emotivi.