Il 73% dei specialisti, il 79% dei generalisti e il 57% degli infermieri utilizza app di messaggistica come WhatsApp per comunicare con i loro pazienti, che a propria volta le usano volentieri per la rapidità con cui possono contattare il curante e avere risposte. E’ una delle evidenze che arrivano dalla ricerca dell’Osservatorio sanità digitale della School of Management – Politecnico di Milano, condotta in collaborazione con Doxapharma e presentata al pubblico la scorsa settimana
Complice la pandemia, dice l’indagine, il digitale si è ormai affermato nella comunicazione tra professionista sanitario e paziente, anche se rimangono alcune criticità da superare. «Oltre ai problemi di sicurezza e privacy» ricorda Chiara Sgarbossa, direttrice dell’Osservatorio Sanità Digitale «questi strumenti possono avere impatti negativi sulla quotidianità professionale dei sanitari, da cui spesso i pazienti si attendono risposte immediate. Inoltre, stentano a diffondersi strumenti più appropriati, sicuri e pensati per l’attività professionale». A oggi, dice ancora la ricerca, soltanto un professionista su tre utilizza piattaforme di comunicazione dedicate al mondo della sanità o certificate, sebbene il 74% degli specialisti e il 72% dei medici di medicina generale esprima interesse per questi prodotti.
Dall’altra parte, peraltro, c’è un paziente che proprio per cercare risposte sempre più veloci fa sempre più spesso ricorso a internet: tra le persone che hanno avuto bisogno di tradurre particolari sintomi in eventuali diagnosi, il 53% delle persone ha fatto ricorso al web e il 42% lo ha fatto anche prima di una visita. Inoltre, il 73% di chi ha utilizzato internet dice di prendere decisioni riguardo alla salute sulla base delle informazioni reperite online.
Ma la “maturazione digitale” degli italiani si concretizza anche in altre voci. Green Pass, referti da tampone rapido e certificati vaccinali hanno svelato a molti italiani esistenza e funzionalità del Fascicolo sanitario elettronico, tanto che oggi dice di averne sentito parlare almeno una volta il 55% degli italiani (un anno fa erano il 38%) e il 33% afferma di averlo utilizzato (12% nel 2021). Non solo: tra i pazienti cronici o con problemi di salute gravi, l’82% sa che cos’è il Fse e il 54% lo ha utilizzato.
Anche in questo caso però si alternano luci e ombre: «In gran parte delle Regioni il livello di alimentazione del Fse con i documenti considerati essenziali è ancora molto limitato» spiega Paolo Locatelli, ricercatore dell’Osservatorio sanità digitale «solo Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Piemonte hanno una percentuale di alimentazione superiore al 50%, che indica la quota di documenti pubblicati e indicizzati sul Fse rispetto al totale delle prestazioni erogate dalle strutture sanitarie pubbliche regionali negli ultimi due anni. Altre quattro Regioni – Campania, Liguria, Sicilia e Calabria – hanno invece livelli che non superano il 5%».
Anche la telemedicina ha beneficiato con covid di un forte impulso, ma i dati dicono che il progressivo ritorno alla normalità sta portando a un calo delle prestazioni erogate a distanza: nell’ultimo anno, per esempio, ha utilizzato la televisita il 26% dei medici specialisti e il 20% dei medici di medicina generale, contro il 39 % del 2020 e il 10% circa del prepandemia. «La contrazione delle prestazioni effettuate in telemedicina» osserva Cristina Masella, responsabile scientifico dell’Osservatorio sanità digitale «va colto come il segnale dell’esigenza di un’innovazione più strutturale, un passaggio a un modello nel quale la medicina a distanza non rappresenti più una soluzione di emergenza, ma un’opportunità per migliorare il sistema di cura. Non dimentichiamo poi che per medici e infermieri le attività di telemedicina spesso costituiscono un’aggiunta, in termini di tempo, a quelle tradizionali».
L’interesse di sanitari e assistiti, per fortuna, rimane alto: oltre la metà di medici e infermieri e l’80% dei pazienti vorrebbe utilizzare i servizi di telemedicina anche in futuro. E le farmacie del territorio, dice l’Osservatorio del Politecnico, potrebbero avere un ruolo rilevante: secondo una survey condotta tra i farmacisti nell’ambito della ricerca, un titolare su due dice di offrire già servizi di telecardiologia e dimostra interesse anche per altre prestazioni come la teledermatologia.
Ma tra gli scogli da abbattere c’è quello delle competenze. Il 38% delle direzioni strategiche di Asl e aziende ospedaliere indica la mancanza di cultura digitali tra le attuali barriere all’innovazione. «La trasformazione dell’ecosistema salute non può prescindere dal fattore umano e, in particolare, dalla cultura e dalle competenze degli attori coinvolti, tra i quali i professionisti sanitari» afferma Emanuele Lettieri, ricercatore dell’Osservatorio sanità digitale «per le aziende sanitarie è prioritario investire nella formazione del personale, soprattutto su materie come la Cartella clinica elettronica, la sicurezza dei dati e la telemedicina, oltre alla formazione sugli strumenti informatici di base».
Il Pnrr rappresenta da questo punti di vista un’occasione epocale, perché assegna alla Sanità 15,63 miliardi di euro con investimenti sostanziali sulla digitalizzazione (610 milioni di euro per adozione e utilizzo del Fse da parte delle Regioni, tra i quali 299,6 milioni per il potenziamento dell’infrastruttura digitale dei sistemi sanitari e 311,4 per aumentare le competenze digitali dei professionisti del sistema sanitario). «Tuttavia» conclude Mariano Corso, responsabile Scientifico dell’Osservatorio «l’effettiva disponibilità e l’efficace messa a terra di queste risorse è tutt’altro che scontata. Lo sblocco di questi fondi da parte delle Istituzioni Europee è condizionato allo sviluppo in tempi rapidi di programmi e riforme la cui realizzazione non è semplice, soprattutto a causa della frammentazione della governance del sistema sanitario pubblico».