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Boots Uk, Wba rinuncia alla vendita. Che cosa c’è dietro e perché è utile saperlo

Filiera

Wba non metterà più all’asta Boots Uk, la storica catena britannica di oltre 2.200 farmacie che le appartiene dal 2014. La decisione è stata ufficializzata la settimana scorsa, ma sui giornali inglesi e nei mercati i rumors circolavano già da parecchi giorni. Troppa la distanza, hanno riferito tutti i commentatori, tra la richiesta economica di Wba e la proposta dei potenziali acquirenti, il fondo americano Apollo e il colosso indiano Reliance Industries: 5,5 miliardi di sterline l’ultima offerta vincolante messa sul piatto dalla cordata, una cifra che Wba ha giudicato insufficiente a fronte della base di partenza (circa 7 miliardi).

Sembra soltanto una storia di alta finanza, invece i retroscena dell’operazione – così come vengono riportati dalla stampa britannica – rendono la vicenda degna di attenzione anche per chi sta in Italia. Più che altro per i segnali che lancia. Torniamo sulle cifre: per finanziare la loro proposta da 5,5 miliardi di sterline, Apollo e Reliance Industries hanno messo assieme un pool di quattro banche: Credit Suisse, Santander, Royal Bank of Canada e Bank of America. Ma quando Wba ha invitato la cordata a rilanciare sulla prima offerta gli istituti di credito avrebbero detto no. Questa almeno è la versione diffusa dalla stessa Wba, che ha spiegato ai suoi azionisti di avere interrotto la vendita perché «le turbolenze del mercato avevano “gravemente” ridotto la disponibilità di finanziamenti ai potenziali acquirenti».

Ci avviciniamo al punto: l’asta è saltata perché nessuno dei partecipanti è riuscito a raccogliere dal mercato del credito il denaro necessario ad avvicinarsi alla richiesta iniziale di Wba; detto in altre parole, nessuno ha ritenuto che l’acquisto delle 2.200 farmacie di Boots valesse più di quello che già era stato messo nel piatto. Nonostante Walgreens avesse acquistato nel 2014 la catena per 9 miliardi di sterline e il suo ebitda/anno si aggiri sui 600-700 milioni di sterline.

Le cose però sono cambiate e lo scenario di fondo non ha precedenti: a causa dei rincari di energia e materie prime, l’inflazione in Inghilterra sfiora oggi il 9%, un valore che non si toccava dal ’91; considerate anche le incertezze legate alla guerra russo-ucraina, prestare denaro oggi comporta più rischi che in passato e così le banche si fanno più guardinghe: quante chance abbiamo di rivedere i soldi prestati (e i relativi interessi) se l’inflazione sale ancora, il potere d’acquisto delle famiglie si riduce ulteriormente, gli acquisti calano e le vendite in farmacia si contraggono? Non è un dubbio insensato: per far quadrare i conti, un paio di anni fa Boots ha avviato una ristrutturazione che prevede la chiusura di 200 farmacie e il taglio di 4mila posti di lavoro.

Senza contare che per un buon numero di osservatori le farmacie della catena avrebbero bisogno di un piano straordinario di manutenzione:  come osserva Alistair Osborne su The Times, i punti vendita peccano di scarsa illuminazione, esposizione confusa, scarsa pulizia e persino perdite d’acqua dal soffitto.

In ogni caso siamo al punto: si è sempre detto che la farmacia è un comparto “aciclico”, il cui andamento cioè non risente della congiuntura economica e delle fluttuazioni abituali della domanda. E invece, a quanto pare, oggi è meno vero che in passato, almeno per Boots. La previdenza, però, invita a chiedersi se congiuntura e inflazione, che a sud delle Alpi mordono quanto a nord della Manica, non rischino di diventare presto una zavorra anche per le società di capitale e i farmacisti titolari che devono ricorrere al credito per finanziarsi.

«Finora nel comparto farmacia non abbiamo registrato segnali di “credit crunch”» osservano i commercialisti bolognesi Marcello Tarabusi e Giovanni Trombetta «però è anche vero che siamo nel secondo semestre dell’anno soltanto da quattro giorni e nessuno sa con precisione che cosa accadrà quest’autunno. Lo scenario, in sostanza, è connotato da una forte incertezza, che invita alla prudenza in tutti i settori».

Nel caso della compravendita di farmacie, osservano i due esperti, l’elemento di maggiore rischio arriva dai moltiplicatori sui quali viaggia oggi il mercato. «Prezzi di acquisto che ammontano a due volte il fatturato annuo di una farmacia continuano a essere ingiustificati. Chi decide di comprare comunque, lo fa perché pensa di incrementare le vendite n modo significativo, oppure perché punta a una mera operazione finanziaria, cioè rivendere  dopo un po’ realizzando un plus valore. In un caso e nell’altro, l’attuale congiuntura impone una prudenza aggiuntiva».

L’invito di Tarabusi e Trombetta, in sostanza, è quello di non abbandonarsi al pessimismo ma nemmeno ritenere che tutto vada bene. «L’inflazione che viaggia all’8,6% è un elemento da non trascurare» continuano «sappiamo quant’è grave il problema del personale in farmacia: già oggi il costo degli stipendi rappresenta la voce più importante della farmacia, l’erosione del potere d’acquisto e le politiche di benefit e incentivi che perseguono le grandi catene potrebbero mettere con le spalle al muro molte farmacie indipendenti».

Non va poi dimenticata la concorrenza dell’e-commerce. In Inghilterra, la vendite di Boots nel terzo trimestre rimangono inferiori del 20% al pre-pandemia, quelle dell’online sono più che raddoppiate, dal 6 al 13%. «La legge sulla concorrenza ha avviato un processo di trasformazione che avanza a passi impercettibili, come un bradisismo» ricordano Tarabusi e Trombetta «l’online è senz’altro un fattore di disruption, ma noi ci aspettiamo rischi di disintermediazione ancora più estesi dal q-commerce, che rischia di rimescolare i tradizionali percorso della ricetta, quella bianca ancora più facilmente di quella rossa».

Tra gli addetti ai lavori c’è chi conferma: «Di certo non sono le condizioni di mercato ideali, in particolare per il mercato del credito» è la valutazione di Rodolfo Guarino, co-ceo di Hippocrates «l’aumento in corso dei tassi di interesse, insieme all’incertezza e i rischi di recessione economica, sono elementi che hanno penalizzato le valutazioni sui mercati borsistici nel corso dei primi sei mesi dell’anno e avranno verosimilmente un effetto paragonabile sulle valutazioni dei mercati “privati”, compreso quello della compravendita di farmacie». Più articolata la valutazione di Francesco Carantani, ceo di Farmagorà: «Se parliamo di finanziamenti a debito» ragiona «effettivamente si sta osservando un rialzo dei tassi di interesse. Se invece parliamo di equity, direi che al momento non si notano perturbazioni. I capitali continuano a vedere nella farmacia un investimento resiliente, più stabile di altri, e quindi continuano a investire».

C’è anche chi si mostra ancora più ottimista: «La farmacia inglese non è quella italiana» ricorda Matteo Oberti, amministratore di Farma-Trade, società specializzata nella compravendita di farmacie «e a casa nostra l’aciclicità del canale non è assolutamente a rischio. Lo si è visto con la pandemia, quando la farmacia è riuscita a migliorare i propri fatturati mentre gran parte degli altri settori ha lamentato perdite. Non vedo rischi per le società o i farmacisti che devono fare ricorso al credito, nel nostro Paese le minacce non arrivano da inflazione o congiuntura traballante ma soltanto dalla politica, come si è visto con il decreto Bersani».

Intanto in Inghilterra gli osservatori si interrogano sugli sviluppi. In alcune comunicazioni, Wba ha cercato di fare buon viso a cattiva sorte e ha affermato che Boots mantiene comunque «un valore fondamentale» per il gruppo, che sfrutterà «tutte le opportunità per massimizzare il valore a beneficio degli azionisti». Gli analisti, tuttavia, restano scettici: per Clive Black, broker di Shore Capital, «questa è il peggiore di tutti gli esiti: Boots è come il figlio costretto a rimanere in una famiglia che non lo vuole. È difficile immaginare come Walgreens possa impegnarsi per la catena: i punti vendita sono sottoinvestiti e il sito Web è piuttosto scadente».

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